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Namasté

21 settembre 2009 Lascia un commento

Non dar retta ai tuoi occhi, e non credere a quello che vedi. Gli occhi vedono solo ciò che è limitato. Guarda col tuo intelletto, e scopri quello che conosci già, allora imparerai come si vola” (R.Bach, Il gabbiano Jonathan Livingstone, 1970)

La lezione al gabbiano Fletcher Lynd nelle ultime pagine del libro di Bach mi esortano a riflettere sull’importanza dei maestri.

Nell’accezione che più volte ho rimaneggiato dell’autoformazione, c’è sempre stato spazio per la controparte insegnante in un processo di autoapprendimento. L’impulso interiore ad imparare, e i corridoi attraverso i quali si snoda il percorso verso il conoscere e l’esperire sono però fortemente guidati dalla volizione personale. Spesso mi capita di riflettere che senza l’ “intenzionalità pedagogica” (Cambi) qualsiasi percorso formativo progettato può essere probabilisticamente fallibile.

Quando allora un maestro è veramente un Maestro? Senza la volontà del discente quanto davvero un docente può generare apprendimento in un allievo?

Ammessa un livello di volizione ad apprendere da parte di quest’ultimo, quanto apprendimento è davvero frutto dell’attività di un altro soggetto che si prende in carico l’intenzione di da, dak (mostrare) la conoscenza e quindi di didasko/di-dàskò (insegnare)?

Dobbiamo forse rifugiarci nuovamente nella prospettiva della maieutica socratica (dove la conoscenza e i pensieri assolutamente personali sono, attraverso il “metodo della levatrice”, “tirati fuori” all’allievo), che sintetizza efficacemente il ruolo e la valenza del soggetto insegnante, sebbene possa lasciare un po’ in ombra la partecipazione attiva del discente. Quest’ultimo vuole imparare, e l’azione di “conduzione” (…gogia) facilita il percorso dell’individuo o una sorta di “violenza pedagogica” viene effettuata dal maestro?

Si devono necessariamente introdurre alcuni concetti moderni dell’interpretazione pedagogica per leggere più chiaramente questa dinamica educativa.

Ognuno di noi si orienta e orienta il proprio apprendere nei modi più disparati, soprattutto attraverso  le molteplici forme dell’educazione informale. Come afferma Tramma (2009) il “disordine educativo” attuale sembra assegnare ruoli nuovi alle agenzie educanti del soggetto: la famiglia informale, la scuola, la comunità che (non) educa… Nuovi posizionamenti delle esperienze informali educative assumono una rilevanza maggiore rispetto al passato e, a mio avviso, anche la concezione del Maestro cambia radicalmente.

Spesso ci si lamenta di come sia cambiato il rispetto per la figura del docente, in particolare nel sofferto rapporto genitore/insegnante, in questo significativo periodo di postmodernità. Il Maestro rispettato, diventa il docente (spesso precario) bistrattato, la scuola un inferno di tensioni e sospiri inerti.

Oggi assumono maggiore valore i Maestri informali.

Non sono formalmente riconoscibili e possono essere maestri, a volte, solo per alcuni periodi della vita se non a tempo strettamente determinato. Non hanno un percorso di anzianità, sebbene spesso coincidano con persone comunque cronologicamente più grandi del soggetto che si trova a poter imparare. Anche l’allievo è un allievo informale, non porta il grembiule e spesso fa coincidere il suo ruolo di discente con quello di amico o compagno.

Siamo tutti allievi e maestri informali rispetto alla nostra Comunità di Apprendimento di riferimento: il luogo di lavoro o di studio, la squadra sportiva, il gruppo di hobby, la comunità religiosa, il gruppo politico, la comitiva. La docenza “ad assetto variabile” che sperimentiamo deve però assumere un carattere consolidato per poter dire che ci troviamo di fronte ad un vero “maestro informale”. A brevi tratti tutti noi diventiamo “esperti di fatto” di qualche cosa, all’interno di gruppo di riferimento, ma cos’è che ci fa riconoscere in noi un “Maestro”? Credo che un po’ tutti quanti abbiano sperimentato questa sensazione, attribuendo ad un personaggio influente della nostra biografia un’etichetta tanto prestigiosa.

Tutti noi dovremmo, ripercorrendo la nostra biografia formativa, individuare i nostri personalissimi “maestri”, che qualche volta coincidono anche con i nostri insegnanti di scuola, di università o con i nostri allenatori.

Credo che il distinguo tra un ignavo titolo di insegnante e la prestigiosa nomea di Maestro sia nella capacità del soggetto che facilita l’apprendimento informale e l’autoformazione del discente, di essere sherpa (gli sherpa sono una popolazione delle montagne del Nepal; per estensione il nome sherpa viene applicato alle guide ed ai portatori di alta quota ingaggiati per le spedizioni himalayane).

Non tutti gli sherpa arrivano fino alla fine delle imprese delle scalate tibetane: conoscono molto bene i sentieri che conducono alla vetta, e li mostrano a chi vuole compiere l’impresa. Facilitano il raggiungimento dell’obiettivo collaborando in modi diversi al successo personale degli scalatori.

Così il Maestro, a volte forse senza neanche accorgersene, influenza fortemente l’allievo informale, mostrandogli con le parole e con i comportamenti “strade” per l’apprendimento di conoscenze, competenze e abilità.

Il valore dell’incontro, che spesso arricchisce l’intelletto e lo spirito nell’affinità che si instaura è, in questa accezione di insegnamento informale, davvero determinante. Io ho fatto conoscenza di diversi sherpa fino a questo punto della mia vita, spesso più grandi di me e spesso interiormente più giovani di me, che mi hanno indicato strade di spiritualità, di intelletto, di conoscenza, di materialità, di emozione.Namaste

A loro dedico questa riflessione in quanto sento la fortuna di poter avere coscienza e consapevolezza della buona sorte che ho avuto a conoscerli, nonché della gratificazione a capire quanto e come sono stati importanti per il mio sviluppo “auto formativo” personale.

Voglio salutarli tutti con il saluto tipico nepalese (un mudra indiano) di quando ci si incontra o ci si lascia, accompagnato dal gesto di congiungere le mani…

Namasté.

NB: La parola namasté letteralmente significa “mi inchino a te”, e deriva dal sanscrito: namas (inchinarsi, salutare con reverenza) e te (a te). A questa parola è però implicitamente associata una valenza spirituale, per cui essa può forse essere tradotta in modo più completo come saluto (mi inchino a) le qualità divine che sono in te. Unita al gesto di unire le mani e chinare il capo, potrebbe essere resa con: unisco il mio corpo e la mente, concentrandomi sul mio potenziale divino, e mi inchino allo stesso potenziale che è in te. In sostanza, dunque, il significato ultimo del saluto è quello di riconoscere la sacralità di ognuno di noi.

Il “Riddim talk”come metafora delle Comunità di Apprendimento e di Pratica: analogie e suggestioni

Esistono diverse connessioni e reciprocità tra il concetto di Comunità di Apprendimento e Comunità di Pratica e le alcune dinamiche culturali e linguistiche della comunità Rastafariana e dell’universo musicale giamaicano.

La sensazione che si ha osservando questi due riferimenti è di tipo “sinestetico”: a chi scrive sembra di osservare contemporaneamente due concetti sovrapponibili con apparecchi “sensoriali” differenti: quello pedagogico e quello empirico legato all’esperienza “etnografica”.

Proviamo a sintetizzare brevemente i concetti a riguardo.

La Comunità di Apprendimento [Brown, Campione] può essere definita come una comunità in cui i soggetti si sentono reciprocamente coinvolti nel condividere e sperimentare una cultura delle conoscenze acquisite (conoscenza distribuita: ciascuno reca il proprio contributo al sapere). Un caso particolare di CdA è la  Comunità Epistemica: un insieme di persone che lavorano su un terreno comune di conoscenze e che si identificano in procedure e metodologie codificate riconosciute da tutto il gruppo e in cui la circolazione della conoscenza si svolge, di norma, anche all’esterno. Altro caso particolare è Comunità della Conoscenza (knowledge community): possono comprendere diversi ambiti professionali. In questo caso l’obiettivo è lo scambio e la condivisione delle conoscenze in un determinato campo del sapere, anche al di là della pratica, quindi dell’applicazione a un contesto lavorativo esperto.

Un genere particolare di comunità è la Comunità di Pratica [Wenger] descrivibile come insieme di persone che condividono professionalità, pratiche e strumenti operativi e metodologici; gli obiettivi, sono la condivisione del sapere, la socializzazione delle esperienze, la discussione comune delle problematiche e delle soluzioni, l’apprendimento tra pari, l’aiuto e il sostegno reciproco.In sostanza non si tratta semplicemente di un “club”, la sua struttura implica una conoscenza tra i membri su un tema specifico; il termine comunità non indica la semplice appartenenza al gruppo di riferimento ma l’interazione fra i membri che fa la comunità. I membri infatti sviluppano e condividono momenti e pratiche che sono un repertorio di risorse, esperienze, storie, etc.

Più nel particolare un gruppo di autori [Guspini,Vettraino,Guglielman] distingue alcune “regole” a cui fare riferimento per instaurare una CdA e CdP:

v      Un obiettivo comune condiviso;

v      La reciprocità di ascolto e di intervento;

v      Il riconoscimento condiviso degli esperti di fatto;

v      La condivisione delle soluzioni;

v      Il divieto di “non-copiare”

Il concetto di Riddim (traslazione parlata della parola inglese rhythm – ritmo) è alla base della musica reggae: si tratta infatti del giro di basso di in una tune, ovvero in un brano di origine giamaicana.

La caratteristica del reggae quasi dalle sue origini è il fatto che i riddims sono stati recuperati fino a diventare la base di milioni di brani, con rare variazioni di tempo e  di caratteristiche, approssimandole allo stile più in voga, e lasciando approssimativamente invariati il basso e la linea melodica (che rende il riddim più riconoscibile). Per i giamaicani in particolare, il termine riddim rappresenta qualunque versione cantabile messa dal DJ nel corso di una dancehall.

Si deve inoltre puntualizzare che la “filosofia musicale” giamaicana, un po’ come molti dei generi musicali del Caribe, ha sempre avuto la tendenza a “miscelare” i generi. La prima forma di musica di ampia diffusione  fu il calypso proveniente da Trinidad, che in Giamaica prese la forma del mento (un calypso più africaneggiante).

Con i primi gruppi e per l’influenza del soul americano delle radio, il mento si trasformò in ska, passando attraverso le prime esperienze dei sound systems (delle grandi discoteche all’aperto nate alla fine degli anni ’50 per consentire anche alla popolazione più povera di beneficiare di musica da ballo). Negli anni ‘60 lo ska divenne popolarissimo anche in Inghilterra. L’introduzione dell’accento sui tempi “in levare” a cui fu aggiunta una tendenza al rallentamento, ha fatto poi emergere il rock steady. Il reggae si sviluppò a partire dal rock-steady e dai suoi motivi romantici, soprattutto a causa delle proteste sociali degli anni‘60 – ’70; a livello musicale il reggae mette quindi insieme tutti gli elementi della storia musicale giamaicana: il calypso, la musica rasta, lo ska e il rock steady, il rhytm’n’blues e l’uso delle chitarre elettriche al posto dei fiati. Nella prima metà degli anni ’80 reggae in Giamaica ha significato sempre più sound system attraverso il fenomeno della dancehall (trasformatosi in una sorta di rap caraibico molto popolare); le sperimentazioni elettroniche, inoltre, hanno favorito in questo periodo l’avvento di un altro genere: il raggamuffin. Ad oggi, tra trasformazioni, temi legati allo stile roots degli anni ’70 e la creazione di nuove etichette culturali, si assiste ad una rinascita delle tematiche sociali presenti nel primo reggae.


Dagli anni ’50 il Creolo Giamaicano ebbe cambiamento importante con la diffusione del movimento rastafariano. Il linguaggio dei rastafariani, (conosciuto come dread talk o rasta talk) nacque dalla necessità di creare un gergo diverso dai coloni che potesse diventare uno strumento adatto a veicolare la religione. Il dread talk è stato denominato soul language, ghetto language o hallucinogenic language per l’ampia presenza di componenti religiose che “innalzano il creolo ad un livello filosofico” (Barrett). Un’altra caratteristica della forza del patois giamaicano e del dread talk è la diffusione della musica reggae in tutto il mondo, che oggi sta ottenendo una nuova ondata di successo (dopo la storica ascesa negli anni ’70 di Robert Nesta Marley). La musica reggae ha la capacità di parlare alla società comunicando ad essa i principi politici e religiosi dei rastafariani, attraverso il potere simbolico della parola e della metafora.

Queste lunghe premesse possono far emergere un quadro concettuale da quale possono essere estrapolate alcune caratteristiche di una Comunità di Apprendimento e di Pratiche (CdA e CdP) da sovrapporre ai contorni della comunità Rastafari.

Tali elementi sono già insiti in alcune dinamiche esperienziali della comunità giamaicana, infatti:

  • i membri condividono l’obiettivo di fare musica che faccia colpo (esiste comunque competizione tra le diverse case discografiche giamaicane), ma che rappresenti adeguatamente i valori e le rappresentazioni simboliche Rastafari;
  • si può asserire che nella comunità musicale giamaicana sono perseguite le regole dell’ “ascolto attivo” e del “dialogo”  in quanto (a livello musicale) l’attenzione alle nuove correnti musicali e la tendenza alla sovrapposizione di riddim conosciuti per i nuovi dischi è sempre alta;
  • nella comunità esiste un principio di uguaglianza dei suoi membri: gli insegnamenti della spiritualità rastafariana si ispirano esplicitamente a quelli evangelici;
  • la logica del “primus inter pares” è empiricamente attuata nei rapporti relazionali (ad esempio, i rasta conferiscono alla donna, in accordo con gli insegnamenti di Haile Selassie I, la medesima dignità dell’uomo, sebbene il suo ruolo sia gerarchicamente subordinato a quello dell’uomo, che è appunto “primo tra pari”.)
  • viene incoraggiato lo scambio e la condivisione di esperienze tra gli individui incoraggiando l’azione del “copiare”, intesa come seguire i riddim “positivi” e le buone pratiche elaborate dalle diverse crew.

Il linguaggio adottato nella cultura giamaicana, infine,  è esso stesso un simbolo di una comunità che si riconosce in temi federatori, così come allo stesso tempo raffigura esteticamente la possibilità di mescolare, integrare e creare neologismi calzanti con il presente.