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Educare all’engagement organizzativo..

“Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende” (art.46 Cost.).

In un uno dei tavoli del Luiss-BarCamp del 21 novembre 2009 (http://www.luissbarcamp.it/sessione1.php) questo articolo redatto dai padri costituenti è stato nuovamente citato in merito alle ultime discussioni apparse sui media già da questa estate riguardo alla possibilità di coinvolgere i lavoratori agli utili dell’impresa.

Sebbene possa apparire come un tema nuovo, alla luce del dibattito che ha coinvolto diversi “main barcampers” [tra cui Edoardo Ghera (professore di Diritto del Lavoro- La Sapienza), Lucrezio Caro Monticelli (Consigliere di Stato e Capo Ufficio Legislativo del Ministero del Lavoro), Agostino Megale (Segretario Confederale CGIL), Maurizio Petriccioli (Segretario Confederale CISL), Renata Polverini (Segretario Generale UIL) e Giorgio Usai (Direttore Area Relazioni Industriali, Sicurezza e Affari Sociali di Confindustria)] sembra che il tema sia in realtà un argomento fortemente digerito nella teoria e più volte ripreso nel dibattito sociale e nell’ordinamento italiano.

Partecipazione. Produttività. Qualità.  Le preoccupazioni legate all’attuale crisi economica del Paese sono state sublimate da queste parole, che forse rimangono, a mio avviso, solo un po’ altisonanti e poco pragmatiche.

Rispetto al tema in questione esistono infatti posizioni molto divergenti secondo il punto di vista dei rappresentanti delle parti sociali piuttosto che datoriali. La partecipazione agli utili dell’impresa è già regolata in una sua forma dall’art. 2349 c.c. ed esistono già da alcuni anni, nel mondo aziendale (perlomeno della Grande Azienda) i premi di produttività e molte altre forme gestionali che premiano la partecipazione e il cosiddetto “engagement” all’interno dell’organizzazione: dall’MBO (management by objectives) all’employer branding (oggi particolarmente in auge), a tutte le forme di incentivo che appartengono alle attività di payroll nel campo delle Risorse Umane.

E’ forse necessario quindi individuare una forma normativa che determini un diritto costituzionale già definito o una evidenziazione formale dell’importanza che può avere la “com-passione” di un lavoratore subordinato nei confronti della sua organizzazione di appartenenza?

Può servire, forse, una definizione meticolosa di quale sia il livello gestionale a cui un lavoratore subordinato può partecipare, condividendo i risultati economici del suo agire produttivo, ma non credo che il mondo dell’impresa accetterebbe di buon grado una considerazione in questi termini; senza contare che la legge definisce con precisione il ruolo dei dirigenti in merito alle responsabilità e alle differenziazioni nei confronti degli altri gradi dei lavoratori subordinati.

Leggere con la lente pedagogica questa riflessione giuslavoristico-organizzativa significa domandarsi se è possibile considerare i lavoratori del secondo millennio come già coinvolti e partecipi ai processi aziendali. Significa capire se i lavoratori subordinati sono affiliati alle mission aziendali e compartecipano con passione ai destini, positivi e negativi, dell’impresa.

Sebbene in molti possano asserire tale affiatamento che esiste oggi nel mondo del lavoro, forse posso immaginare anche una buona moltitudine di lavoratori che, in fondo, individuano come priorità fondamentale il proprio benessere fisico e retributivo e, in seconda battuta, quello organizzativo.

Provando ad immedesimarsi nella realtà imprenditoriale e professionistica, forse può essere molto più coerente immaginare di intraprendere una pedagogia sociale che tenti in qualche modo di insegnare, già nel percorso di istruzione e formazione, quali siano le dinamiche relative al mondo economico e del lavoro, generando una cultura della responsabilità economica personale e l’approccio al mercato globale, attualmente incardinato nel tessuto sociale mondiale.

Oltre ad alcuni interessanti esperimenti che si possono trovare in Rete (http://www.economiascuola.it ), può essere utile immaginare delle ore di educazione finanziaria all’interno dei percorsi scolastici, già dalla scuola dell’obbligo, fino a considerare dei veri e propri percorsi di orientamento e formazione all’imprenditorialità per il mondo universitario.

Quanti ragazzi sentono parlare (seppure per caso e molto distrattamente) di indici finanziari, di borsa, di PIL, di domanda e offerta di lavoro?

A quanti viene data la possibilità di capire cos’è una fattura e sapere che hanno anche una possibilità autonoma di approcciare al lavoro?

Non sono forse queste dei tentativi risolutivi di contrasto alla crisi economica e di riattivazione della produzione per il sistema italiano?

Un approccio bottom-up, a lungo termine, che però può dare risultati molto concreti.

Purtroppo alcuni di questi pregevoli esempi di educazione alla cittadinanza attiva del nostro secolo, rimangono tentativi lasciati alla capacità dei più volenterosi e non sono attività che vengono rese obbligatorie o fortemente sostenute dalla forza legislativa.